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Un commento alla nuova legge urbanistica
14 ottobre 2005

"Un commento alla nuova legge urbanistica nazionale e alcune proposte alternative”. Un notevole saggio in corso di pubblicazione sul n. 3-2005 della rivista Democrazia e Diritto. La cosiddetta “legge Lupi” è il nuovo disegno di legge nazionale intitolato “Principi in materia di governo del territorio”, approvato dalla Camera dei deputati il 28 giugno 2005 e ora iscritto al Senato con il n. 3519. Il testo votato è destinato a sostituire buona parte delle leggi urbanistiche vigenti, dalla legge 1150 del 1942 a quelle che negli anni ’60 trattano dell’interesse pubblico nelle azioni urbanistiche, prevedendone l’abrogazione diretta[1] o la decadenza ove le Regioni emanino normative sui medesimi oggetti[2]. Il disegno di legge risulta dall’unificazione di otto disegni di legge diversi, presentati da gruppi di deputati che vanno da AN e Forza Italia a Margherita, DS, Verdi e Rifondazione, e da numerosi emendamenti approvati alla Camera prima del voto sul provvedimento complessivo. Oggetto di un voto segreto parzialmente bipartisan[3] difficilmente comprensibile, spiegabile forse soltanto con la scarsa cultura urbanistica e dei beni comuni che caratterizza gran parte degli attuali deputati[4], è caduto nell’assordante silenzio[5] della stampa, occupata a fornirci quotidianamente notizie il più possibile inessenziali. Lo scandalo non sta tanto nei voti della sinistra a una legge di destra, al di là del fatto che questi termini abbiano ancora un significato in molte scelte relative al rapporto tra pubblico e privato, ma nell’ampia approvazione data a uno strumento il cui impianto e i cui contenuti, malgrado dichiarazioni sfacciate che l’hanno definito “una delle riforme più importanti per la modernizzazione del nostro paese”[6], sono assai arretrati e confusi rispetto alle discipline in essere nei principali paesi occidentali avanzati, senza neppure costituire una legge quadro che riorganizzi l’intera materia in modo sistematico. La legge in effetti si limita a disciplinare la sola materia urbanistica[7], non affrontando né la definizione di governo del territorio né gli altri temi che la sostanziano: paesaggio, ambiente, assetto idrogeologico, ecc.[8]. Le valutazioni politiche più sobrie evidenziano la confusione di ruoli tra soggetti pubblici e privati[9]; il riferimento ad alcuni contenuti di leggi regionali già vigenti anziché l’elaborazione di principi adeguati a una legge nazionale, quali la partecipazione democratica dei cittadini alla formazione degli atti di governo e la sostenibilità ambientale[10]; l’intrusione del governo nazionale in materie delegate alle Regioni, la scarsa innovazione e l’eccessiva flessibilità, l’assenza di contenuti relativi alle funzioni settoriali proprie dello Stato e alla loro necessaria integrazione nelle azioni di programmazione e pianificazione, la mancata soluzione della dipendenza finanziaria dei Comuni dall’ICI e quindi la loro condanna a perseguire immotivate politiche di espansione dell’urbanizzato per far quadrare il bilancio[11] in una perversa alleanza con le forze immobiliariste. Dei diversi contenuti del disegno di legge tentiamo un commento il più possibile ragionato, con l’augurio di vederlo pubblicato e letto prima del voto in Senato. Per poter dare una valutazione non tattica del testo normativo è tuttavia necessario delineare per sommi capi il contesto in cui esso interviene, caratterizzato da profondi cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni: a quali problematiche relative alle trasformazioni territoriali occorre far oggi riferimento? Quali nuovi ruoli può giocare il territorio nelle scelte di sviluppo locale? Come cambiano le funzioni di governo del territorio e degli enti pubblici territoriali? i

Magnaghi, Alberto; Marson, Anna www.eddyburg.it, Data di pubblicazione: 04.10.2005

 
Immobili leggi e affari: Le mani sulla città
30 giugno 2005

"Ricucci, Coppola, Statuto, le loro fidanzate e mogli, le Bmw e gli amici, i loro protettori politici... Sono il tema del giorno, della politica e dell'economia; sono da mesi sulle prime pagine dei giornali, forse perché molto appariscenti o forse perché qualche giornale vogliono comprarselo; danno corpo e facce alla rendita immobiliare, l'unica realtà dell'economia italiana che gode di ottima salute e che hanno rivestito e travestito con uno spigliato look finanziario. Del tutto fuori dai riflettori, anzi seminascosta al grande pubblico, è passata invece una notizia che con la rendita immobiliare e con i suoi eroi ha parecchio a che vedere: l'approvazione da parte della camera dei deputati di una riforma urbanistica che premia al valore i suddetti eroi - e tanti altri, anche più antichi -chiamando i proprietari fondiari a scrivere i piani regolatori. La riforma porta il nome di Maurizio Lupi, astro emergente - anzi ormai emerso - di Forza Italia, ramo lombardo-ciellino, che già ne aveva ideato il prototipo da giovane assessore all'urbanistica milanese. Uno dei suoi capisaldi è la sostituzione degli «atti autoritativi» con gli «atti negoziali». La scelta linguistica è abile: come non essere d'accordo? Non siamo tutti per il negoziato e contro l'autoritarismo? Senonché tradotto in urbanistica questo vuoi dire che i comuni dovranno contrattare i piani regolatori e le loro varianti con i soggetti economici interessati: i costruttori, i proprietari delle aree, gli intermediari, i fondi immobiliari. Come far scrivere alle volpi le regole sui pollai. Ma non è tutto. La riforma - che per diventare legge attende ancora il via libera del senato - elimina anche i vecchi e rigidi «standard urbanistici», quell'antico armamentario in base al quale ognuno di noi cittadini di un certo quartiere aveva diritto, almeno sulla carta, a un tot di verde, un tot di servizi collettivi, un tot di spazi comuni. Con l'urbanistica nuovo modello, il livello minimo di servizi e spazi è solo un auspicio mentre gli standard diventano flessibili e - manco a dirlo - contrattati. Ciliegine: si introduce il silenzio assenso per le concessioni edilizie; la tutela del paesaggio è scorporata, non ha più niente a che vedere con la pianificazione delle città. Tra gli addetti ai lavori che seguono la riforma, i fautori - tutta la destra ma anche, con distinguo vari, parte del centrosinistra - la dipingono come una modernizzazione, che sancisce la fine del dirigismo del vecchio piano regolatore a favore di una più disinvolta gestione della realtà. Mentre il drappello degli urbanisti in solitària rivolta contro la legge Lupi parla di «trionfo della rendita». Sta di fatto che siamo al termine di un decennio eccezionale per tutto il settore economico che gravita intorno agli immobili: compravendite, valorizzazioni, affitti, intermediazioni, ristrutturazioni, e adesso anche nuove costruzioni, sono le sole voci con segno «più» nei bilanci italiani. Alla fine della corsa, arriva una legge che da un ruolo «pubblico» ai privati miracolati dalla bolla immobiliare. Chiamandoli a sedere attorno a un tavolo che possiamo immaginare così: di qua, i sin-daci e gli assessori dei nostri comuni sempre più poveri e indebitati; di là, i soggetti economici privati con i portafogli ben rigonfi. Chissà chi condurrà il gioco. Ma al di là del merito della legge, quel che colpisce è il silenzio-assenso generale nel quale sta passando, soprattutto se confrontato con il gran chiasso che circonda in questi mesi il boom della rendita immobiliare. Qualcosa di simile si è Visto sulla questione della giustizia, quando mezza Italia si è mobilitata contro la norma particolare salva-Previti e poi ha smobilitato quando si è passati all'assalto generale alla giustizia. Anche stavolta, si guarda al singolo caso presente -l'exploit di un oscuro intermediario immobiliare che adesso ha la pretesa di comprare banche e giornali - e ci si disinteressa della generalità dei casi futuri. Cioè, della faccia delle nostre città. "

ROBERTA CARLINI Il Manifesto, 01/07/2005

 
Primo sì alla legge urbanistica
30 giugno 2005

"La legge urbanistica si prepara la svolta: il disegno di legge approvato dalla Camera, fissa le competenze tra Stato e autonomie dopo le modifiche alla Costituzione C'è anche il silenzio-assenso per la concessione edilizia nel disegno di legge sul governo del territorio approvato dalla Camera martedì. L'ha introdotta, proprio all'ultimo comma, l'ultimo emendamento approvato su proposta di Forza Italia: quello che introduce l'articolo 13 con l'elenco delle norme da considerare abrogate in quanto incompatibili con la nuova disciplina. Il silenzio assenso sostituisce il silenzio rifiuto previsto oggi al comma 9 dell'articolo 20 del testo unico s u l l ' e d i l i z i a ( Dpr 380/ 2001). La modifica, qualora la legge fosse approvata anche dal Senato, comporterebbe un ulteriore spostamento delle domande dallo strumento della Super Dia, prevista nello stesso testo unico, verso la concessione. Un movimento già in atto, visto che non pochi sostengono già oggi che il procedimento della Super Dia tutela poco chi lo utilizza nel caso di pesanti operazioni di ristrutturazione. A confermare il passo indietro sulla Superdia è lo stessa legge varata da Montecitorio. Dopo il braccio di ferro con cui lo Stato aveva imposto alle Regioni l'allargamento della Dia, ora la " legge Lupi", attentissima a un rapporto equilibrato con i Governatori, fa una parziale marcia indietro: e lascia libere le Regioni, con il comma 1 dell'articolo 11, di individuare « le categorie di opere e i presupposti urbanistici in base ai quali l'interessato ha la facoltà di presentare la denuncia di inizio attività in luogo della domanda di permesso di costruire » . Ma la legge sul governo del territorio è soprattutto riforma della legge urbanistica del 1942 ( è la n. 1150) e ammodernamento degli strumenti urbanistici. Con l'obiettivo di sanare dieci anni di ritardo della legislazione statale rispetto alle legislazioni regionali e di consolidare le discipline regionali, andate avanti a forza di strappi. Formalmente, la legge approvata a Montecitorio è anche la prima legge di principi dello Stato sulle materie a competenza concorrente. Una legge leggera nella forma ( qualche detrattore la definisce " legge di slogan") ma pesante nella sostanza. Il salto rispetto alla disciplina statale vigente è enorme — una specie di crollo del muro di Berlino — con l'abbandono della vecchia urbanistica dirigista fondata sul Piano regolatore unico e sugli espropri e l'avvio di una nuova urbanistica cui non manca nessuno degli strumenti innovativi sperimentati dalle Regioni in questi anni: ! lo sdoppiamento del vecchio Piano regolatore generale, ora « piano urbanistico » comunale in « strutturale » per le invarianti di lungo periodo e « operativo » con le destinazioni di uso delle aree ( articolo 6); " l'utilizzo di strumenti di redistribuzione dei « diritti edificatori » all'interno di comparti omogenei, come la compensazione e la perequazione ( articolo 9); # la priorità data agli interventi di rinnovo urbano rispetto alla nuova edificazione ( articolo 6, comma 4); $ il principio di sussidiarietà verticale che elimina le sovrapposizioni di competenza fra Regioni, Province e Comuni, assegnando al Comune le competenze di pianificazione urbanistica e di « soggetto primario titolare delle funzioni di governo del territorio » ( articolo 5); % le premialità assegnate in termini di metri cubi aggiuntivi « al fine di favorire il rinnovo ubrano e la prevenzione di rischi naturali e tecnologici » ( articolo 9, comma 4); la legittimazione definitiva di strumenti di urbanistica negoziata che qui vengono individuati come prioritari ed elevati a sistema, per quanto debbano avvenire « nel rispetto dei principi di imparzialità amministrativa, di trasparenza, di concorernzialità, di pubblicità e di partecipazione al procedimento di tutti i soggetti interessati all'intervento » ( articolo 5, comma 4); ' la sostanziale riforma degli « standard » che abbandona il rigido rapporto quantitativo fra aree edificabili e aree da destinare agli interessi collettivi per prevedere, invece, in funzione della necessità delle singole aree, lo sviluppo di servizi adeguati ( si pensi a parcheggi o a centri sportivi) che potranno anche essere forniti direttamente da privati anziché attraverso il circuito esproprio opera pubblica ( articolo 7). Recepiti gli strumenti sperimentati in sede locale Dai privati le aree per parcheggi e centri sportivi"

Il Sole 24-Ore - 30 giugno 2005

 
Approvata alla camera
giugno 2005

"Così, ce l’hanno fatta. La legge Lupi è stata approvata dalla Camera dei Deputati. Con l’appoggio del centrosinistra: è una legge bipartisan, ha detto l’on. Mantini, della Margherita. E il diessino on. Sandri aveva ripetuto spesso che il limite della legge è di essere “solo” una legge urbanistica, di non affrontare le altre questioni che, insieme all’urbanistica, compongono il più vasto quadro del governo del territorio. Il rovesciamento dell’urbanistica, il trasferimento di poteri dal pubblico al privato, l’ingresso formale della rendita immobiliare al tavolo dove si decide, questa è la linea che ha vinto: con l’accordo pieno della Margherita, la complicità dei DS, l’ignavia degli altri. E con la copertura culturale dell’Istituto nazionale di urbanistica, nel silenzio dell’accademia. I lettori di Eddyburg sanno perchè quella legge è nefasta. Ne abbiamo parlato in numerosi articoli. Abbiamo promosso un appello, sul quale abbiamo raccolto 400 firme. Dall’appello, riprendiamo i punti essenziali della critica. 1) Si sostituiscono gli “atti autoritativi”, e cioè la normale attività pubblica di pianificazione, con gli “atti negoziali con i soggetti interessati”. La relazione di accompagnamento della legge specifica che i soggetti interessati non si identificano – come sarebbe auspicabile - con la pluralità dei cittadini che hanno diritto ad avere una ambiente urbano vivibile e salubre, ma si identificano invece con la ristretta cerchia degli operatori economici. Un diritto collettivo viene dunque sostituito con la sommatoria di interessi particolari: prevalenti, quelli immobiliari. I luoghi della vita comune, le città e il territorio vengono affidati alle convenienze del mercato. 2) Si sopprime l’obbligo di riservare determinate quantità di aree alle esigenze di verde, servizi collettivi (scuole, sanità, sport, cultura, ricreazione) e spazi di vita comuni per i cittadini, ottenuto decenni fa grazie a un impegno massiccio delle associazioni culturali, delle organizzazioni sindacali, del movimento associativo e di quello femminile, delle forze politiche attente alle esigenze della società. Gli “standard urbanistici” sono infatti sostituiti dalla raccomandazione di “garantire comunque un livello minimo” di attrezzature e servizi, “anche con il concorso di soggetti privati”. 3) Si esclude la tutela del paesaggio e dei beni culturali dagli impegni della pianificazione ordinaria delle città e del territorio. Contraddicendo una linea di pensiero che, da oltre mezzo secolo, aveva tentato di integrare con la pianificazione i diversi aspetti e interessi sul territorio in una visione pubblica unitaria, contraddicendo gli indirizzi culturali e legislativi che dalle leggi del 1939 e del 1942 avevano condotto alla “legge Galasso” e alle successive leggi regionali, paesaggio e trasformazioni territoriali sono divisi: affidati a leggi diverse, a uomini diversi, a strumenti diversi. Non c’è dubbio a chi spetterà la parola in caso di contrasti: non certo a chi rappresenta i musei e il bel Paese, ma a chi investe, occupa, trasforma, agli “energumeni del cemento armato”, pubblico e privato. Una legge che rende permanenti le regole della distruzione del paese, avviate con i condoni. Una legge che rende evanescenti i diritti sociali della città, conquistati al prezzo di dure lotte. Una legge che rende dominanti su tutti gli interessi della rendita immobiliare. E su quest’ultimo punto il cedimento della componente diessina della sinistra alle impostazioni di Forza Italia non può non essere messa in relazione con altre vicende. Anche a non voler ricordare le voci sugli intrecci tra la “finanza rossa”, i suoi patron politici e le fortune degli immobiliaristi alla Ricucci, occorrerebbe essere davvero ingenui per non vedere il nesso che lega il comportamento dei parlamentari dei DS con le politiche locali che vedono esponenti di quel partito premiare gli interessi della proprietà immobiliare, a Caorle come nella riviera romagnola come nell’Agro romano. E come non sottolineare infine la contraddizione tra una politica, coerentemente tesa a premiare la rendita, con la constatazione che il declino industriale dell’Italia dipende, in modo essenziale, sul fatto che si sono tollerati, o addirittura incoraggiati, flussi di investimenti verso la speculazione immobiliare, distraendoli così dagli impieghi produttivi? Non tutto è ancora perduto. La parola spetta adesso al Senato. La denuncia ha ancora una sede cui fare appello, la ragione ha ancora uno spazio per farsi sentire."

Edoardo Salzano

 
URBANISTICA una legge da fermare
20 marzo 2005

"Competitività. La nuova disciplina delle Teresa Cannarozzo, ordinario di Urbanistica, Università di Palermo Alessandro Dal Piaz, ordinario di Urbanistica, Università di Napoli, Federico II Tommaso Giura Longo, ordinario di Progettazione Architettonica, Università di Roma Tre. Cara Unità, sembrerebbe che quasi tutta la stampa italiana abbia "rapporti di parentela aziendale" con i formidabili interessi immobiliari che dominano lo sviluppo urbano nel nostro paese. Infatti finora solo l'Unità (8 febbraio u. s.) ha trovato lo spazio per dare voce a chi si oppone alla legge urbanistica proposta dall'on. Lupi, che è andata in discussione alla camera dei Deputati. Una di queste voci è quella di Vittorio Emiliani che, autorevole e allarmata, vede nella legge Lupi lo strumento per subordinare la definizione dei piani urbanistici alle volontà dei privati proprietari di aree, delle società immobiliari e dei "palazzinari". La stessa posizione di Emiliani è stata assunta dalla benemerita associazione Italia Nostra e dai noti urbanisti Vezio De Lucia ed Edoardo Salzano che esortano alla mobilitazione contro la legge Lupi. Crediamo giusto aderire al fronte degli oppositori per i seguenti tre motivi:

- Il testo di legge in discussione priverà i comuni dei loro poteri fondamentli e democratici e li spingerà a contrattare con gli speculatori il destino futuro delle città; -

comporterà l'abolizione del rispetto degli standard urbanistici (verde pubblico, parcheggi, scuole, sport, attrezzature pubbliche);

- la tutela del paesaggio e dei beni culturali non farà parte dei compiti spettanti alla pianificazione delle città e del loro territorio."

20/03/2005 - L'Unità

 
La Dia per iniziare un'attività
12 marzo 2005

"Competitività. La nuova disciplina delle autorizzazioni modifica la procedura della legge n. 241/90 Con la p.a. i cittadini fanno da sé Le materie escluse dalla nuova Dia: anche tutela del patrimonio culturale e paesaggistico nonché dell'ambiente, oltre a difesa nazionale; pubblica sicurezza, immigrazione - Amministrazione della giustizia - Amministrazione delle finanze (compresi gli atti riguardanti le reti di acquisizione del gettito, derivante anche dal gioco) - Atti imposti dalla normativa comunitaria Autorizzazioni, addio. Per la quasi totalità dei casi basterà infatti una Dichiarazione di inizio attività del cittadino, comprensiva delle documentazioni e autocertificazioni E dopo 30 giorni dal ricevimento della dichiarazione scatta il silenzio-assenso da parte della p.a. direttamente interessata. Una rivoluzione contenuta nel pacchetto competitività approvato dal consiglio dei ministri nella seduta di ieri pomeriggio. Ma vediamo nel dettaglio la problematica in questione. La disciplina precedente. Il precedente testo dell'articolo 19 della legge n. 241/90 (modificato con il nuovo di) prevedeva la possibilità di applicare l'istituto della Dichiarazione di inizio attività (Dia) «in tutti i casi in cui l'esercizio di un'attività privata sia subordinato ad autorizzazione, licenza, abilitazione, nullaosta, permesso o altro atto di consenso comunque denominato, a esclusione dei titoli edilizi", purché il rilascio dipendesse «esclusivamente dall'accertamento dei presupposti e dei requisiti di legge, senza l'esperimento di prove a ciò destinate che comportino valutazioni tecniche discrezionali», non prevedendo quindi «alcun limite o contingente complessivo per il rilascio degli atti stessi». Il termine per l'ottenimento del silenzio-assenso era fissato in 30 giorni. Tale disposizione non era stata modificata nel corso degli anni. Di fatto, tuttavia, sia con il dlgs n. 114/98 (riforma del commercio) sia con il dpr n. 380/2001 (Testo unico dell'edilizia) erano stati introdotti specifici meccanismi facilitativi, a favore del cittadino, al fine di meglio snellire il rapporto con le p.a. L'intervento legislativo. Il nuovo testo dell'articolo 19 della legge n. 241/90 estende ora a tutte le tipologie di autorizzazioni amministrative l'istituto delle Denunce di inizio attività, già previsto in materia edilizia e commerciale. La Dia sarà infatti possibile per qual-siasi tipo di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nullaosta, comprese anche le domande per le iscrizioni in albi o ruoli per lo svolgimento delle attività di impresa, commercio o artigianato. Il rilascio deve dipendere solo dall'accertamento dei requisiti e presupposti di legge o di atti amministrativi a contenuto generale. Non deve essere previsto nessun limite o contingente, come neppure l'applicazione di strumenti di programmazione settoriale per il rilascio di tali atti. Sono escluse da tale rivoluzione diverse tipologie di atti, rilasciati dalle p.a. competenti, indicate nel grafico riportato a fianco. Caratteristiche della Dia. La nuova Dia deve ricomprendere una dichiarazione del cittadino interessato, corredata anche con autocertificazioni, certificazioni e attestazioni richieste dalla disciplina normativa in vigore. Spetta a ciascuna p.a. la possibilità (e non più l'obbligo, come originariamente inteso dal legislatore) di «richiedere informazioni o certificazioni» che riguardino fatti, stati o qualità, e comunque solo nel caso in cui non risultino già attestati in documenti già in possesso della stessa p.a. o non siano direttamente ottenibili presso altre p.a. Termini di avvio dell'attività. L'attività interessata dalla dichiarazione può essere iniziata dopo 30 giorni dalla sua presentazione alla p.a. interessata. Di tale avvio deve essere data notizia alla p.a. stessa. Intervento della p.a. Nei caso in cui la p.a. competente al rilascio dell'autorizzazione dovesse accertare la mancanza delle condizioni, delle modalità e dei fatti che consentono l'ottenimento del silenzio-assenso, entro il termine perentorio dei 30 giorni, che scattano a seguito dell'avvenuto ricevimento Ottenimento dei pareri. Qualora poi la legge dovesse prevedere, per la specifica disciplina di settore, l'ottenimento di pareri di organi o enti appositi è sospeso il termine per l'emanazione dei provvedimenti di divieto di continuazione dell'attività e di eliminazione dei suoi effetti. Tale sospensione vale fino all'avvenuta acquisizione di tali pareri, fino a un termine massimo di 30 giorni. Scaduto quest'ultimo termine la p.a. competente può adottare i propri provvedimenti, indipendentemente dall'ottenimento del parere. Deve essere data comunicazione della sospensione all'interessato. Caso dei termini diversi. Il legislatore precisa che restane ferme le disposizioni legislative vigenti, che prevedono termini diversi rispetto a quelli sopraccitati per l'inizio dell'attività e per l'adozione, da parte della p.a. interessata, dei provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione dei suoi effetti. Un caso evidente è quello delle Dia e delle Super-dia in materia di edilizia, disciplinate dal dpr n. 380/2001, in combinato disposto con le rispettive leggi regionali in materia, per le quali è prevista l'applicazione dei termini inferiori (rispetto a quelli indicati dal legislatore nazionale), se espressamente previsti."

12/03/2005, Italia Oggi 12-MAR 2005

 
Silenzio assenso finisce nel disegno di legge
12 marzo 2005

"Due distinti provvedimenti legislativi fatti su misura per diventare un corpo unico azionando la leva parlamentare. Mantiene questa fisionomia il piano per la competitività anche dopo le numerose modifiche apportate dal Consiglio dei ministri nel varare il decreto legge e il disegno di legge. Prime fra tutte quelle riguardanti il capitolo degli incentivi e delle risorse per lo sviluppo e quello della riforma delle libere professioni. Nel primo caso è stato ridimensionato, rispetto alle bozze dei giorni scorsi, il ruolo di Sviluppo Italia mentre è stato confermato il premio di concentrazione per le piccole e medie imprese sotto forma di credito d'imposta del 30 per cento. Per le professioni il pacchetto inserito nel DL si è leggermente arricchito. Esempi emblematici dell'operazione in due fasi sono la riforma del diritto fallimentare, rimasta immutata rispetto alla bozza d'ingresso (si veda 11 Sole 24 Ore di ieri), e il piano di semplificazioni. Che riserva però una sorpresa: il silenzio-assenso viene dirottato dal DL al disegno di legge . Le misure sulla Denuncia di inizio attività (termine di riferimento 30 giorni), restano nel decreto ma non si applicheranno ai Beni culturali e paesaggistici(soddisfatto il ministro Giuliano Urbani, anche il ministro Mario Baccini parla di «svolta epocale»). Il collegamento tra decreto e Ddl è più sfumato nel caso della gestione delle risorse per lo sviluppo (Sud compreso). Confermata la riforma degli incentivi. Oltre al premio di concentrazione per le Pmi, il DL sancisce poi l'abolizione dell'Ici sui capannoni industriali (abrograzione della norma della Finanziaria 2O05 che stabiliva il valore catastale anche dei «fabbricati mobili», come turbine elettriche e ponti mobìli). Previsto poi l'irrobustimento del Fondo per le aziende in crisi (100 milioni), da cui pere non attingerà direttamente risorse Sviluppo Italia. Resterà infatti il Cipe a ricoprire il ruolo principale attraverso il Comitato per lo sviluppo (erogazione dei fondi) e il Comitato pei l'attrazione degli investimenti entro cui opererà Sviluppo Italia. Sempre il decreto prevede la destinazione di almeno il 30% del Fondo rotativo di sostegno alle imprese ad attività e progetti strategici di ricerca. Nel Dd] invece trovano posto, come già noto, le agevolazioni (aumento della deducibilità Irap), per i neo-assunti al Sud. Quanto alle professioni, inizia a delinearsi un sistema di "accreditamento" dei professionisti diverso dadi Ordini. Dopo un duro braccio di ferro il ministro della Giustizia Roberto Castelli, appoggiato dai ministri di An, è riuscito a inserire il testo approvato nei giorni scorsi dai "saggi" (il Guardasigilli, il sottosegretario Michele Vietti e il vice presidente vicario di An, Ignazio La Russa). Per altro, sul testo si è registrata la convergenza delle varie componenti professionali, dagli Ordini alle associazioni "emergenti". Grazie al decreto sarà dunque possibile il riconoscimento delle Associazioni di professionisti che non esercitano attività regolamentate e tipiche svolte dagli iscritti agli Ordini (si veda la scheda). «Le misure del decreto legge — ha detto Castelli — mettono le premesse per una disciplina più organica da inserire nel corso della conversione. Abbiamo il tempo a disposizione per trovare un accordo sulle norme che facilitino la competitività anche nelle professioni». Le società, in particolare quelle di capitali con soci non professionisti, continuano a essere il punto più delicato.

M.Carla De Cesari M. Rogar - Il Messaggero 12/03/2005

 
Silenzio-assenso - Distruggere un Paese
10 marzo 2005

"Con la Super DIA, cioè con la Dichiarazione Inizio Attività molto estesa e col meccanismo del silenzio/assenso in caso di mancata o tardiva risposta degli organi tecnici di controllo e di tutela entro 30 giorni, il governo Berlusconi finirà per intaccare le fondamenta di parti essenziali dello Stato. «Possiamo prenderlo sul serio?», si era chiesto un grande esperto, un ex ministro, Sabino Cassese, sul Corriere della Sera. «Se dovessimo prenderlo sul serio, lo Stato avrebbe chiuso i battenti»; in effetti è in questione il valore stesso della legalità. Ora ne sembrano esclusi beni e paesaggi vincolati. Ma per tutti gli altri la svolta (nel buio) sarà davvero epocale. Non bastavano, e avanzavano, i vari condoni, le varie sanatorie? «La primissima bozza del provvedimento» prevedeva - l'ha confermato ieri alla Camera il ministro Urbani - l'estensione della «semplificazione», col silenzio/ assenso incorporato, al settore, delicatissimo, dei beni culturali e ambientali. Lo stesso ministro, riconoscendo che il vincolo è «perfettamente conforme alla migliore tradizione liberale di questo Paese», ha escluso, sulla base dei dati ricevuti dagli uffici, che la cura Berlusconi-Baccini possa estendersi al patrimonio culturale e al paesaggio. «Queste sono le considerazioni che ribadirò al prossimo consiglio dei ministri». Parole tranquillizzanti. Bisognerà vedere in quale conto verranno tenute al tavolo del governo. Anche ai vari condoni Urbani disse di no. Senza essere, malauguratamente, ascoltato. Che cosa verrà approvato. Del provvedimento di "semplificazione" sono girate almeno tre versioni. Dovrebbe trattarsi di un decreto-legge, quindi subito esecutivo, senza finti dibattiti preventivi, inserito nelle misure sull'incremento della competitività. Quando verrà approvato. C'è chi dice al prossimo consiglio dei ministri, ma non è certo. Allora quando? Quando le forze di governo troveranno una non facile intesa politica. Se si tratterà di disegno di legge, i tempi, ovviamente, si allungheranno. "Carta di riserva. In ogni caso, il governo ha presentato una carta di riserva: alla Commissione Affari Costituzionali del Senato, da metà novembre, è in discussione un emendamento di «semplificazione» che prevede forme di auto-certificazione in tutti i campi, escludendo difesa, pubblica sicurezza, salute, immigrazione, giustizia fino a ieri vi erano inclusi pure i beni culturali e ambientali vincolati. Con 30 giorni per dire un sì o un no. Altrimenti il silenzio-assenso, cioè mano libera alle speculazioni e alle manomissioni più disastrose. Anche sui lavori del Senato bisogna quindi vigilare molto attentamente. Come chiede, allarmato, il senatore Sauro Turroni. Beni culturali. Esclusa, stando ad Urbani, l'estensione della Super DIA ad immobili e ambienti vincolati, rimangono taluni dubbi. L'articolo 5 - secondo la lettura fatta da «Patrimonio SOS» che ha promosso con Italia Nostra, Wwf, FAI, etc., un vibrante appello di protesta - conferisce al Commissario straordinario preposto a progetti strategici poteri altrettanto straordinari, senza alcun bisogno di convocare Conferenze di servizi con le Soprintendenze. Mano libera quindi, totalmente? In un altro articolo, il controllo doganale viene «semplificato» anche per i beni culturali. Misura gravissima: il traffico clandestino di opere d'arte e soprattutto di preziosi reperti archeologici in partenza dall'Italia è fiorentissimo, anche se sono ormai tanti i recuperi operati da Carabinieri e Finanza Allentando però le maglie, «tombaroli» e mercanti ne trarranno vantaggi. Verrà cancellato o rimarrà? Cosa succede al Ministero La presa di distanza, piuttosto netta stavolta, di Giuliano Urbani dallo smantellamento dei vincoli sui beni culturali e ambientali (la prima legge sul paesaggio reca la firma del massimo filosofo liberale del '900, Benedetto Croce) ha suscitato echi positivi. Si attende pero il consiglio dei ministri. Un j'accuse. Ieri e stato tuttavia reso pubblico un autentico j'accuse contenuto nella lettera inviata a Urbani da Libero Rossi, segretario della Cgil Funzione pubblica-Beni culturali. In essa si sottolineano autentici «buchi neri» come: a) la mutilazione del Nuovo Codice «dei suoi contenuti più interessanti e più rigorosi» attraverso la condonabilità degli abusi paesaggistici; b) il «salto nel buio» della riforma del Ministero, con Direzioni regionali istituite con personale rastrellato da Soprintendenze di settore già carenti di tecnici e quindi ulteriormente indebolite nel loro ruolo fin qui essenziale sul territorio; c) una politica molto sbilanciata a favore dell' imprenditoria privata, «finalizzata a toglierà all'Istituzione Pubblica il proprio ruolo centrale nel sistema della tutela e conservazione»; d) la riduzione drastica degli investimenti programmati dal Ministero, vicina al 70 per cento nel settore dei beni architettonici e paesistici (il più minacciato); e) in quattro anni, nessun aumento né aggiornamento della (scarsa) dotazione di mezzi («un qualsiasi ufficio comunale di un piccolo paese è più dotato di mezzi di una grande Soprintendenza»). Probabilmente il Bel Paese - quello già protetto da vincoli - scamperà allo smantellamento dei controlli pubblici preventivi. Ma, come si vede, la tutela si è già tanto indebolita dal 2001 ad oggi. Come non era mai successo. Una svolta negativa epocale."

Vittorio Emiliani - l'Unità 10/03/2005

 
Beni culturali, ultimo scempio
8 marzo 2005

"Ore decisive per la "semplificazione amministrativa". Rischio-cemento su città e palazzi storici: si potrà evitare lo scempio annunciato dei beni culturali autorizzato dalle norme in arrivo sulla "semplificazione amministrativa"? Dopo il Consiglio dei ministri di venerdì e le confuse dichiarazioni di membri del governo, nessuno sa ancora se queste norme si applicheranno o no ai beni culturali. Già sono escluse dall'ambito di applicazione altre materie (difesa, pubblica sicurezza, giustizia, salute) : aggiungere alla lista i beni culturali è una soluzione ragionevole. Tanto che — dopo l'allarme dell'opinione pubblica in seguito alla denuncia di questo giornale e di associazioni come il Fai e Italia Nostra— a proporla è stato lo stesso ministero dell'Economia. Fare il contrario vorrebbe dire, lo abbiamo ampiamente argomentato in queste pagine, la licenza di uccidere città, monumenti e paesaggi: a questo esito porterebbe infatti, l'indiscriminata applicazione della "dichiarazione di inizio attività" (dia) ai beni culturali, con un meccanismo di silenzio-assenso che vanifica ogni azione di tutela. Palazzi storici potrebbero essere sventrati o abbattuti impunemente, collezioni e opere d'arte vendute senza alcun controllo. L'intero sistema della tutela ne uscirebbe devastato. Le soprintendenze, che annaspano in una perpetua mancanza di personale per l'annosa mancanza di assunzioni, non potrebbero neppur sognare di star dietro alla valanga di "dia" che si apprestano a invaderle. II presidente del Consiglio e il ministro della Funzione pubblica hanno dichiarato che i beni culturali saranno, appunto, esclusi dal provvedimento. Ma la situazione è tutt'altro che chiara: se due ministeri importantissimi per un tema come questo (Economia e Beni Culturali) hanno chiaramente optato per questa soluzione, non altrettanto chiara è la posizione della Funzione pubblica. Mentre il ministro Baccini si associa al presidente del Consiglio nel gettare acqua sul fuoco, il capo del suo ufficio legislativo, Vincenzo Nunziata, sembra deciso a insistere: a quel che pare, almeno per lui il meccanismo della "dia" deve prevalere sulla tutela. Ma con ciò non solo il Codice dei beni culturali, ma lo stesso art. 9 della Costituzione diventerebbe cartastraccia. Per giunta, il provvedimento contiene anche una "semplificazione amministrativa" che comporterebbe la fine di ogni controllo doganale sui beni culturali, con ciò generando indiscriminate e mas-sicce esportazioni; e perfino una norma sulla "accelerazione di opere strategiche" che in nome del pubblico interesse darebbe a un commissario straordinario il potere di prendere decisioni (per esempio, costruire un'autostrada su un sito archeologico) senza nemmeno consultare le soprintendenze. Sabino Cassese ha scritto sul Corriere della Sera del 5 marzo che, «se dovessimo prendere sul serio» una legge come questa «lo Stato avrebbe chiuso i suoi battenti». In questa generale débàcle, è facile prevedere che il primo ad essere smantellato sarebbe quel glorioso pezzo di Stato che è il sistema della tutela, in cui l'Italia è stata ed è di modello al mondo intero. Ma con esso crollerebbero il nostro paesaggio e il nostro patrimonio culturale, che sono la nostra storia e la nostra identità, ma anche il vero fattore di unicità dell'Italia, l'inimitabile "marchio di fabbrica" che attrae e incanta da secoli visitatori di tutto il mondo. Roma, Firenze, Napoli diventerebbero come la Maurilia delle Città invisibili di Italo Calvino: «II viaggiatore è invitato a visitare la città e nello stesso tempo a osservare certe cartoline che la rappresentano com'era prima (...) Per non deludere gli abitanti occorre che il viaggiatore lodi la città nelle cartoline e la preferisca a quella presente, riconoscendo che la magnificenza e prosperità di Maurilia divenuta metropoli, se confrontate con la vecchia Maurilia provinciale, non ripagano d'una certa grazia perduta, la quale può tuttavia esser goduta adesso solo nelle vecchie cartoline (...) Essa ha questa attrattiva in più, che attraverso ciò che è diventata si può ripensare con nostalgia a quella che era». Ma in realtà «le vecchie cartoline non rappresentano Maurilia com'era, ma un'altra città, che per caso si chiamava Maurilia come questa». Riconosceremo, fra dieci anni, le nostre città? La nostra Italia? O dovremo guardarla con nostalgia in vecchie cartoline? Dipende solo da noi. Ma se questo invito alla barbarie travestito da "semplificazione amministrativa" dovesse passare calpestando la Costituzione, allora sarà meglio cominciare a far collezione di cartoline. Travolte, col favore di un'alluvione di "dia", da un'immensa colata di cemento, fra pochi anni le città invisibili non saranno l'invenzione narrativa di uno scrittore. Saranno le stesse città in cui oggi viviamo. O meglio ne porteranno il nome; ma ci appariranno irriconoscibili ed estranee."

Salvatore Settis - la Repubblica, 8 marzo 2005

 
Le Soprintendenze non ce la faranno
24 febbraio 2005

"La legge di cui dovrà discutere la Camera entro pochi giorni lascia intravedere un quadro a tinte fosche, soprattutto in quelle regioni d'Italia dove i beni artistici non sono ancora ben catalogati e definiti, in un contesto in cui la politica culturale del governo naviga a vista in un mare di ristrettezze economiche e di contraddizioni. Perché se da un lato le funzioni di controllo degli organismi statali sono decapitate, al tempo stesso il governo aumenta il numero delle Soprintendenze, come nel caso toscano. «La legge, di per sé, non sarebbe sbagliata» dice la dottoressa Burresi della Soprintendenza di Pisa «se non fosse che manca il personale, al punto che qualche volta dobbiamo tenere a contratto dei pensionati per avere alcune consulenze». E' quel che dice anche Settis, che parla di «funzionari di altissima qualità, che sulla base di una legge dello scorso agosto avevano dichiarato la loro disponibilità a rimanere in servizio per alcuni anni e che sono stati messi alla porta poche settimane fa». Il direttore della Normale fa anche alcuni esempi, tra cui quello di Maria Augusta Timpanaro dell'Archivio di Stato di Pisa e di Annamaria Petrioli Tofani degli Uffizi di Firenze. La dottoressa Tofani non parla del suo caso, ma si associa all'allarme di Settis: «Si è persa - spiega - la percezione del patrimonio artistico nazionale come identità della natura e della personalità dell'Italia. Si stanno vendendo i gioielli di famiglia ed è come se ci tagliassimo le possibilità di respirare. Si sta correndo dietro ad una modernizzazione e una monetizzazione che avranno conseguenze nefaste. E questa diffusa noncuranza dell'immagine culturale, che di per sé sarebbe già insopportabile, ci toglierà grandi risorse anche sul piano del ritorno economico». La legge estende la "Dia", acronimo che sta per dichiarazione di inizio attività, una sorta di autocertificazione dei proprietari, ai beni sottoposti al vincolo artistico e architettonico. «Con le Soprintendenze ridotte come sono - dice la dottoressa Tofani - il silenzio delle amministrazioni probabilmente non sarebbe dettato da una scelta, ma dall'impossibilità di intervenire entro il limite dei due mesi. Dunque si vuole sottrarre alla legge una materia così delicata e importante per lasciarla gestire al buon senso degli individui. Il Codice Urbani è già abbastanza liberista, ma introdurre il silenzio-assenso vorrebbe dire rovesciare i termini del problema e vanificare ogni controllo».

G.F. Tirreno, 24/02/2005

 
DIA e silenzio assenso
24 febbraio 2005

"Intervista al soprintendente Luciano Marchetti «Uffici già in affanno per le cartolarizzazioni» All'esame del Parlamento sta per arrivare una legge basata sul principio del silenzio-assenso che nei fatti rischia di fare piazza pulita di tutti i vincoli di tutela sui beni culturali di proprietà privata. Chi vuole, potrà vendere e disperdere una preziosa collezione di dipinti o ristrutturare un palazzo storico a proprio piacimento, magari stravolgendolo. Tutto sarà possibile attraverso la Dia (Dichiarazione di inizio attività): basterà un'autocertificazione e se entro due mesi le soprintendenze competenti non avranno espresso un parere negativo, le carte saranno in regola. Finora da questa prassi erano esclusi i beni culturali. Se la normativa per la "Semplificazione della regolamentazione" - così si chiama - quest'eccezione sarà cancellata. Una possibilità duramente denunciata da Salvatore Settis, storico e archeologo, autorevole voce del mondo della cultura, con il quale si schiera anche il direttore regionale per i Beni Culturali e Paesaggìstici del Lazio, Luciano Marchetti. Professore, a cosa si va incontro? Se questa norma venisse approvata, non saremmo in grado di rispondere in tempi utili. Capisco la necessità del privato di avere tempi certi nell'avvalersi delle procedure, ma se lo Stato non può sostituire il personale che va in pensione, con il turn-over bloccato, il funzionamento degli uffici diventa ancora più affannoso. Tutti faranno quello che vogliono e non è accettabile. Va trovata una soluzione. E quale potrebbe essere? Definire i tipi di intervento, facendo una graduatoria e riducendo quelli possibili negli edifici sotto tutela. E trovare una soluzione amministrativa per potenziare il personale. Una rivoluzione rispetto a ciò che è stato fatto finora. Si, ma è l'unica cosa da fare se non si vuole che i tempi scadano sempre e che nessuno risponda in tempo utile. E cosa potrebbe succedere? Ad esempio, se ho una stanza decorata da affreschi e voglio ripulire la mia casa, faccio la Dia dicendo che la imbianco e gli affreschi spariscono. Se sono cattivo, posso anche rifare l'intonaco: quando l'amministrazione riesce ad intervenire, il danno ormai è fatto. Le problematiche del restauro sono troppo complesse per rientrare in una regolamentazione così generale. Inoltre i vostri uffici sono alle prese anche con altre pratiche su cui pende il silenzio-assenso. Infatti, siamo già in grande affanno per rispondere alla norma sulla vendita dei beni pubblici ricompressa nel Codice Urbani. Cosa in cui riusciamo a fatica. Se poi si sommano altre scadenze inderogabili... Sono molti i procedimenti daprendere in esame? Basta pensare che anche l'Ater ha la necessità di vendere e tutto passa attraverso le soprintendenze. E i funzionari sono sempre gli stessi. Bisognerebbe almeno poter ripartire il lavoro in temp più lunghi. Adesso quali sono le risorse di personale di cui disponete? Contando i funzionari di tutte le soprintendenze, nel complesso ce ne sono 22 per tutta Roma e 25 per tutto i Lazio, che si occupano delle pratiche che riguardano gli edifici. Ma quali sono i motivi che stanno dietro la nuova norma? Beh, è di iniziativa parlamentare e non governativa. Nasce per tutelare i diritti dei cittadini, ma finisce col non tutelare i beni culturali."

24-FEB-2005 - L'Unità Roma

 
Appello al ministro contro la DIA
23/2/2005

"Caro direttore, mi auguro sia una clamorosa svista quella che estenderebbe ai Beni Culturali la "semplificazione della regolamentazine" degli atti amministrativì, norma che il governo si appresterebbe a varare questa settimana. Come lucidamente e drammaticamente ha denunciato su Repubblica di ieri Salvatore Settis, con questo provvedimento si potrebbe "ristrutturare" (non restaurare) una villa del Palladio o vendere un dipinto di Raffaello semplicemente inviando una autocertificazione alla competente Soprintendenza; se in 60 giorni non si avesse una risposta, entrerebbe in gioco il nefasto principio del silenzio-assenso e la villa di Palladio potrebbe essere trasformata in appartamenti. Il lavoro delle Soprintendenze, già gravemente compromesso dalla mancanza di personale scientifico, si ridurrebbe a una affannosa "rincorsa" per bloccare abusi e soprusi e non consentirebbe invece quel lavoro positivo e propositivo che il nuovo codice, giustamente, affida alla Soprintendenza. Ma se di svista, ahinoi, non si trattasse, allora saremmo autorizzati a pensare a un disegno diabolico di reale smantellamento della tutela in Italia; e a ciò saremmo autorizzati dopo l'approvazione della legge delega sull'ambiente, dei cui effetti devastanti non tarderemo ad accorgerci. Ci appelliamo al Ministro Urbani perché il suo e nostro codice non sia ridotto, come Settis scrive, a carta straccia.

Giulia Maria Mozzoni Crespi presidente del Fai 23/02/2005 - La Repubblica

 
La DIA applicata ai bb.cc.
22/2/2005

"In arrivo un nuovo, gravissimo assalto al principio costituzionale della tutela del patrimonio culturale. Continua così, a meno di un anno dall'entrata in vigore del Codice Urbani, il sistematico progetto di smantellare quel che esso conserva (ed è molto) delle norme di tutela affermate dalle leggi Bottai del 1939 e ribadite dalla Costituzione repubblicana. È di ieri l'approvazione della legge-delega sull'ambiente, che contiene una sciagurata sanatoria di ogni possibile illecito paesaggistico, anche i più gravi, in tutto il territorio nazionale. La proposta di indiscriminato condono (in deroga anche al Codice Penale!) di tutti i reati di ricettazione e commercio illecito di beni archeologici e artistici è stata per fortuna espunta dalla Finanziaria, ma ripresentata come legge ordinaria da alcuni deputati di Forza Italia. Il governo intende varare questa settimana un nuovo atto normativo che sotto l'innocua etichetta di «Semplificazione della regolamentazione» contrabbanda la morte annunciata della tutela in questo Paese. La formula magica è "Dia", ossia "Dichiarazione di inizio di attività": secondo l'articolo 19 della legge 241/1990, quando sia necessaria l'autorizzazione pubblica di alcune attività private sulla base di prerequisiti certi, l'autocertificazione di tali prerequisiti (Dia) può sostituire il nulla-osta amministrativo, salvo che l'amministrazione competente vi si opponga entro 60 giorni. Questa, che doveva essere un'eccezione alla regola, fu trasformata in regola generale con la legge 537/1993 (articolo 2), ma ne restavano pur sempre esclusi i beni culturali vincolati ai sensi della legge di tutela del 1939 (così fino al luglio 2004 nel disegno di legge A. C.3890-B). Con la nuova normativa proposta dalla Funzione Pubblica, al contrario, questa eccezione viene soppressa, e per la prima volta nella storia d'Italia anche le autorizzazioni relative a beni soggetti a tutela vengono sottoposte al meccanismo della Dia. Di conseguenza, per esempio, il principe Torlonia potrebbe vendere domani (previa Dia) la sua collezione archeologica (la più grande al mondo in mani private), il proprietario di un palazzo storico potrebbe abbatterlo per costruire al suo posto un condominio, e cosi via. L'intero sistema della tutela viene cosi governato non più dall'art. 9 della Costituzione, bensì dal pessimo principio del silenzio-assenso che (si ricorderà) fu introdotto dalla legge 269/2003 (art. 27) a proposito dell'alienazione di beni culturali pubblici. Il Codice Urbani era allora in discussione, e la Commissione Cultura della Camera raccomandò al governo che, nell'approvare il Codice, il silenzio-assenso venisse cancellato in quanto incoerente coi principi della tutela. Avvenne l'opposto, e per un diktat di Tremonti il silenzio-assenso s'insediò nel Codice (art. 12). Come ha scritto sul Sole-24 ore (9 maggio 2004) un eccellente giurista, Silvio Martuccelli, è questo uno «strano modo di utilizzare ìl silenzio-assenso. Nato per tutelare il cittadino dinanzi all'inerzia della pubblica amministrazione, per una sorta di eterogenesi dei fini diventa un espediente tecnico attraverso il quale lo Stato, a danno della collettività, elude il vincolo di inalienabilità dei beni culturali». Il silenzio, continua Martuccelli, non ha di per sé alcun significato giuridico. È il legislatore che sceglie se attribuirgli un significato, e quale. Se (nel caso dell'alienazione di beni culturali pubblici) il legislatore avesse privilegiato l'interesse a tutelarli, avrebbe attribuito all'eventuale silenzio dell'amministrazione il valore di un diniego; poiché gli ha dato invece valore di assenso, è chiaro che ha considerato l'interesse a vendere come prevalente sulla tutela. Perciò Martuccelli denunciava «con forza l'assoluta illegittimità costituzionale di una norma scritta in totale spregio dell'art. 9 della Costituzione». Il ministro Urbani ha sostenuto che il silenzio-assenso è un corpo estraneo al suo Codice, e vale comunque solo in sede di prima applicazione. Vorremmo potergli credere, ma la nuova normativa in discussione al Consiglio dei Ministri dimostra il contrario: e cioè che si intende estendere il silenzio-assenso alle "dichiarazioni di inizio attività" sui beni finora oggetto di garantite procedure di tutela. Il concetto stesso di tutela viene in tal modo abbattuto a cannonate, e il valore precettivo dell'art. 9 della Costituzione viene ignorato o irriso. L'esercizio della tutela da parte delle pubbliche amministrazioni, da obbligatorio che era, diventa opzionale e discrezionale, con effetti devastanti sullo stesso Codice Urbani, trasformato da un giorno all'altro in carta straccia. Si capovolge, calpestando la cultura giuridica del Paese, il rapporto fra l'art. 9 della Costituzione (che non a caso, ce lo ricorda l'incessante magistero del Presidente Ciampi, figura fra i suoi Principi Fondamentali) e gli articoli 41-42: la libera iniziativa e la proprietà dei privati diventano principio fondamentale, mentre la tutela dei beni culturali diventa una eventualità subordinata e accessoria. La Costituzione viene stravolta e deturpata, contro ogni principio, da una norma ordinaria, senza passare per il Parlamento. L'ipotesi poi che le Soprintendenze, ridotte a inseguire le Dia per poter esercitare gli ultimi brandelli di quella che fu la tutela, possano efficacemente operare entro i termini perentori del silenzio-assenso, è un ulteriore insulto al buon senso dei cittadini, e un estremo sberleffo ai funzionari del settore, già mortificati dall'umiliante e persistente taglio di ogni risorsa economica. È a tutti noto che da alcuni decenni le nuove assunzioni di personale tecnico-scientifico sono inferiori al 20 per cento dei pensionamenti. Per fare un solo esempio, nei ruoli degli archeologi risulta oggi non coperto un quarto dei posti di un organico già più che esiguo (471 posti per tutta Italia!); quasi del tutto vuoto è il gradino iniziale della carriera (CI), dunque manca ogni turn-over e l'amministrazione è al collasso. All'indomani di una riforma del Ministero che ha gonfiato praeter necessitatem i ruoli dirigenziali, più del 30 per cento delle Soprintendenze sono coperte per reggenza, cioè da un supplente d'emergenza, e manca chi possa coprirle a pieno titolo. Intanto, in piena schizofrenia organizzativa, da un lato si aboliscono alcune Soprintendenze (come quella egittologica di Torino, o quella dell'Etruria meridionale, stranamente accorpata col Lazio), dall'altro se ne creano di nuove (a Lucca, a Lecce, a Verona). Funzionari di altissima qualità, che sulla base di una legge dello scorso agosto avevano dichiarato la propria disponibilità a restare in servizio per alcuni anni, sono stati messi alla porta poche settimane fa. È questo il caso non solo di Adriano La Regina a Roma, ma di Annamaria Petrioli Tofani agli Uffizi, di Ernesto Milano alla Biblioteca Estense di Modena, di Maria Augusta Morelli Tìmpanaro all'Archivio di Stato di Pisa. Anche quando la sostituzione sia di ottimo livello, non si è fatto che spostare il problema altrove: è il caso della Soprintendenza archeologica di Roma affidata ad Angelo Bottini, che ha però lasciato scoperta quella per la Toscana, una delle zone archeologiche cruciali per il Paese. La funzionalità delle Soprintendenze non è un discorso di bassa cucina. L'art. 9 della nostra insidiatissima Costituzione, prescrivendo che la Repubblica«tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione», rinvia (come ha dimostrato il bel libro di Francesco Saverio Marini Lo statuto costituzionale dei beni culturali, 2002) alle norme e strutture di tutela in vigore quando la Costituzione fu approvata: rispettivamente, le leggi Bottai del 1939 e l'organizzazione delle soprintendenze territoriali. Perciò il depotenziamento della tutela (come risulterebbe dalla nuova norma sulle Dia) e la defunzionalizzazione delle Soprintentendenze sono altrettante (e convergenti) offese alla Costituzione e alla cultura giuridica e istituzionale del Paese. I cittadini, che la Costituzione vuole titolari e proprietari del patrimonio culturale della Nazione, saranno ridotti a spettatori impotenti di uno scempio senza nome? Un tema come la tutela, che risuona nelle coscienze di moltissimi italiani, non è e non deve essere appannaggio di questa o di quella parte politica. A tutti sì possono rimproverare errori (per esempio, la carenza di nuove assunzioni e l'obsolescenza delle strutture sono da imputarsi a tutti i governi degli ultimi vent’anni almeno, senza eccezioni). Ma sulle questioni di principio, sul carattere del nostro patrimonio culturale come costitutivo della storia e dell'identità del Paese, noi cittadini dobbiamo esigere dai politici di ogni parte, che noi e non altri abbiamo delegato ad amministrare la cosa pubblica, il rigoroso rispetto dei principi costituzionali. È accaduto pochi mesi fa quando non solo l'opposizione, ma parti significative della maggioranza e dello stesso Governo bloccarono la vergognosa proposta di condono ai tombaroli e ai ricettatori; può e deve accadere ancora con quest'altra proposta non meno indecente."

Salvatore Settis 22-febbraio-2005 - La Repubblica

 
Più cemento per tutti
09/2/2005

"In dirittura di arrivo la riforma urbanistica di Formigoni: per i Verdi deregulation e il solito regalo ai Berlusconi. L'assoluta ''deregulation'', una ''straordinaria occasione mancata'', un invito alla ''cementificazione'' e un regalo a Berluschino, cioè a Paolo Berlusconi che potrà realizzare in un’area di pregio a Monza ben 60 palazzine. Un'area che invece l'amministrazione ulivista guidata dal sindaco Faglia voleva preservare. E’ una bocciatura senza appello quella della Gad nei confronti della riforma urbanistica proposta dalla maggioranza di centrodestra che governa la Lombardia. Una riforma che rappresenta, a giudizio di tutti, il provvedimento più importante di tutta la legislatura, che ha visto impegnato il consiglio regionale per più di un anno e mezzo. Ma per l’opposizione Formigoni & c, se riusciranno ad approvare la riforma entro la chiusura della legislatura, cioè il prossimo 16 febbraio, scriveranno una delle pagine peggiori di dieci anni ininterrotti di governo della Regione. Qualche speranza l’opposizione la nutre ancora. Sul tavolo ci sono più di 200 emendamenti e le baruffe che si stanno ancora consumando all’interno della Casa delle libertà per la composizione del listino di Formigoni per le prossime regionali, potrebbe consentire l’approvazione, grazie al voto segreto, di qualche succoso emendamento confezionato dall’opposizione. La legge proposta dal centrodestra prevede la fine dei piani regolatori, considerati troppo rigidi con la loro divisione in zone a seconda dell'uso, e li sostituisce con i più flessibili piani di governo del territorio. Rende anche più semplici e meno burocratiche le procedure per chi deve costruire. Carlo Monguzzi, consigliere regionale dei Verdi riassume in tre parole gli effetti nefasti della riforma: “Cementificazione, cementificazione, cementificazione''. E prosegue: ''Si abbandona ogni criterio di programmazione e il mandato sul piano si dà non ai Comuni ma alle Giunte. La regola sui sottotetti regala praticamente un piano in più ai costruttori per non parlare dell'articolo 25 che è una norma ad personam per Paolo Berlusconi''. L'articolo incriminato dice in sostanza che chi ha un piano regolatore realizzato prima del 1975 non può più fare varianti, ma deve approvare con le nuove regole il piano di governo del territorio. E guarda caso in Lombardia gli unici due comuni ad avere un Prg così datato sono Campione d'Italia e Monza, e proprio a Monza questa norma impedirebbe di approvare una variante che impedisce di costruire in alcune aree esterne alla città, come ''nei 600 mila metri quadrati di Cascinazza - sottolinea Monguzzi - dove Paolo Berlusconi ha in progetto 60 palazzine''. Per Gianni Confalonieri, capogruppo del Prc in consiglio la legge “è una straordinaria occasione mancata”. “C'era bisogno di una legge nuova per una regione in trasformazione come la nostra, ma una legge che salvaguardasse il territorio. Questa fa esattamente l'opposto''. Una deregulation, aggiunge lo Sdi e invece, sottolineano gli esponenti della Margherita come del resto tutta l’opposizione, la legge avrebbe dovuto dire no al consumo di nuovo territorio. “C’è pochissimo territorio vergine e dovremmo tutelarlo, anche per i nostri figli'', hanno concluso gli esponenti del centrosinistra."

Verdi - http://www.verdi.it/

 
Tutto il potere ai palazzinari
08/2/2005

"Nel silenzio quasi totale, raggelante, dell’informazione, la Camera ha cominciato a discutere in aula la legge, firmata dall’on. Maurizio Lupi (Forza Italia, milanese, vicino a Formigoni) con la quale verrà praticamente fatta saltare la normativa urbanistica esistente, a livello nazionale e quindi anche regionale e locale. Naturalmente a tutto vantaggio di formidabili interessi immobiliari. Associazioni come Italia Nostra, intellettuali che hanno a cuore il Bel Paese si stanno mobilitando contro questa legge che demolirà, se approvata come vuole il centrodestra, alcuni pilastri di una legislazione che tanta fatica è costata, a partire dagli anni Sessanta. Una legislazione che ha dato civiltà al nostro Paese, così spesso depredato dalla speculazione immobiliare, legale e illegale. Il punto-chiave, o «nero», di questa legge. Per essa le attuali regole urbanistiche sono «autoritative». Eppure, il potere pubblico viene democraticamente esercitato, coi dovuti controlli dai Comuni attraverso il dibattito e il voto in Consiglio dei rappresentanti del popolo. Tutto ciò non va più bene, è «autoritativo» (o autoritario) nonché dirigista. Quindi va radicalmente cambiato e reso «paritetico». Nel senso che i privati saranno chiamati ad esprimere la loro volontà non dopo l’approvazione consiliare dello strumento urbanistico (cioè nella fase delle osservazioni), o, consultivamente, anche durante il lavoro per il piano. Saranno abilitati a farlo «prima». Insomma, il nuovo piano urbanistico disegnato dalla legge Lupi verrà redatto, in sostanza, sulla base della volontà espressa dai «soggetti interessati», cioè dai privati proprietari di aree, dalle società immobiliari, dai «palazzinari». Prevale così il «rito ambrosiano», vale a dire la non-pianificazione introdotta dal centrodestra a Milano (che non è mai stato un modello di urbanistica europea), dove il piano è, già oggi, la sommatoria dei tanti interessi privati «negoziati» prima col Comune. Quindi, via «la città dei cittadini» (per ricordare un bel libro anni Settanta del sociologo socialista Roberto Guiducci) e spazio alla «città delle immobiliari». Queste ultime, negli anni del boom edilizio, spiazzavano i Comuni costruendo lottizzazioni in zone agricole, e costringendo poi l’ente pubblico a inseguirle portando sin là i servizi essenziali. D’ora in poi non dovranno neppure fare questa fatica, nel senso che saranno loro a pre-determinare gli sviluppi della città contrattandoli con Comuni ormai spossessati dei poteri fondamentali (e democratici) in materia. Un secondo punto-chiave della legge Lupi prevede la pratica sparizione degli standard urbanistici vigenti dopo la legge-ponte del 1968, conquista di grande civiltà che assegnava a ciascun cittadino una quota di metri quadrati di verde, di parcheggi, di scuole primarie, di strutture sportive, eccetera. Sostituiti ora dalla semplice raccomandazione a «garantire comunque un livello minimo» di attrezzature e servizi «anche con il concorso di soggetti privati». In tal modo, i Comuni già avanti nell’acquisizione degli standard minimi retrocederanno e quelli invece più indietro rimarranno desolatamente più in coda. Terzo punto «nero» della legge ora alla Camera (ripeto: nel silenzio totale dei giornali, anche di quelli che con le grandi immobiliari non hanno rapporti di parentela aziendale): la tutela del paesaggio e dei beni culturali non farà più parte della pianificazione ordinaria delle città e del loro territorio. Viene così demolita un’altra acquisizione essenziale della nostra cultura che, con la legge Galasso del 1985 e con altre leggi (anche regionali) di buona qualità, aveva integrato in una salvaguardia unitaria, territorio, ambiente e paesaggio. Di qui in avanti, essi saranno invece divisi e attribuiti a leggi, uomini e strumenti differenti. Col risultato che prevarranno, più che mai, gli interessi forti: quelli che accoppiano cemento e asfalto. Si pensi a Roma che è riuscita a votare in consiglio comunale il suo Piano Regolatore nel 2003, a 94 anni dall’ultimo Prg, approvato nello stesso democratico modo (erano i tempi del sindaco Nathan). Roma, dove negli ultimi 40 anni la popolazione è aumentata soltanto del 17% - e sta calando sempre più - mentre lo spazio urbanizzato, cemento più asfalto, si è dilatato del 260%, e non accenna a frenare questo suo dilagare nell’Agro. Qui non si vogliono difendere, in sé, gli strumenti, a volte invecchiati, della pianificazione urbanistica vigente. Se ne vogliono salvaguardare i princìpi fondamentali incentrati sull’interesse generale tutelato (per ora) dalla Costituzione, sul democratico rapporto Stato-Regioni-Enti locali che insieme compongono la Repubblica dei cittadini, fra i quali ci sono ovviamente anche i privati detentori di aree. Non però il regno delle immobiliari che invece la legge Lupi disegna in ore già drammatiche per la casa abbandonata per anni, un po’ da tutti purtroppo, al cosiddetto «libero mercato», in realtà alla legge selvaggia del più forte."

Vittorio Emiliani - L'unita online

 
La destra abolisce l'urbanistica
31/1/2005

"Un disastro incombe sulle città e sul territorio italiani. Nel prossimo mese di febbraio, la Camera dei deputati potrebbe approvare la nuova legge urbanistica. Una proposta micidiale, che porta il nome di Maurizio Lupi, deputato di Forza Italia, negli anni passati assessore del comune di Milano e ispiratore dell'urbanistica contrattata di rito ambrosiano. A Milano non valgono più le antiche regole. Non è il piano regolatore che comanda le scelte edilizie. E' vero il contrario, sono i progetti, una volta approvati, a determinare il piano regolatore. Che diventa così una specie di catasto dove si registrano le trasformazioni decise a scala edilizia. E' la medesima impostazione della proposta di legge in discussione alla Camera. L'urbanistica non è più competenza esclusiva del potere pubblico, ma dipende dagli "atti negoziali" e dagli accordi fra i soggetti istituzionali e i soggetti interessati, che certamente non sono la pluralità dei cittadini ma solo i detentori della proprietà immobiliare. Un'altra novità riguarda il campo di applicazione dei piani regolatori che non coprono più l'intero territorio comunale, com'è sempre stato dal dopoguerra, ma spetta alle regioni di individuare gli ambiti territoriali e i contenuti della pianificazione. C'è ancora di peggio, il disegno di legge Lupi ha snaturato la stessa disciplina urbanistica, scorporando da essa la tutela dei beni culturali e del paesaggio, che nella legislazione del nostro Paese erano state sempre organicamente intrecciate. Alcuni dei risultati più straordinari dell'urbanistica italiana non sarebbero più possibili se fosse approvata la legge in discussione. Mi limito a ricordare la destinazione pubblica dell'intero comprensorio (2.500 ettari) dell'Appia Antica, a Roma, deciso dal piano regolatore del 1965 proprio per tutelare l'enorme patrimonio d'arte e di storia formato dalla regina viarum e dai dintorni. Non sarebbe più possibile la formazione del gran parco delle mura a Ferrara, nè la salvaguarda delle colline di Firenze, Bologna, Bergamo, Napoli sfuggite agli energumeni del cemento armato. Un'altra funesta previsione della proposta riguarda la cancellazione dei cosiddetti standard urbanistici, che sono una sorta di diritto alla città, il riconoscimento a ogni cittadino italiano di disporre di una sufficiente quantità di spazio pubblico per servizi fondamentali: il verde, l'istruzione, i parcheggi, e altre attrezzature. Gli standard, frutto di vaste e prolungate rivendicazioni popolari, esistono nell'ordinamento italiano dal 1968, e da allora hanno rappresentato un riferimento irrinunciabile per l'azione di partiti, comitati, associazioni, movimenti che hanno preteso, e ottenuto, la realizzazione e la gestione di servizi essenziali. Con la legge Lupi non sarà più così, e in nome della flessibilità e della privatizzazione esulta la stampa confindustriale che scrive di un vero e proprio sblindamento, quello previsto dall'articolo 6, che è destinato a far saltare una delle norme che più hanno irrigidito l'urbanistica italiana degli ultimi venti anni: la disciplina degli standard urbanistici. L'opposizione tace. Anzi, ampi settori del centro sinistra, quelli convinti che la modernità consista nell'asservimento dell'interesse pubblico all'interesse privato, collaborano al buon esito dell'iniziativa. La stampa non si occupa dell'argomento. Solo l'associazione "Italia nostra", riunita a Roma in un convegno sul paesaggio, ha lanciato l'allarme e ha avviato una raccolta di firme sotto un appello all'opinione pubblica e ai partiti politici. Un appello preoccupato e severo: preoccupato per gli effetti del disegno di legge Lupi, severo nei confronti non solo di chi ha proposto ma anche di chi non l'ha contrastato."

Vezio De Lucia - 31 gennaio 2005

 
Appello convegno Italia Nostra
28/1/2005

"Appello presentato in occasione del convegno di Italia Nostra, Roma 28 gennaio 2005. Primi firmatari Desideria Pasolini dell’Onda, Edoardo Salzano, Vezio De Lucia, Piero Bevilacqua, Vittorio Emiliani, Gaia Pallottino, Giuseppe Barbera, Giuseppe Gisotti, Alberto Magnaghi ... La Camera dei Deputati si appresta a votare la riforma del governo del territorio, nel testo approvato dalla VIII commissione parlamentare. Il testo, in gran parte dovuto al presidente della commissione on. Lupi, sopprime il principio stesso del governo pubblico del territorio, che rappresenta una della principali conquiste del pensiero liberale e accomuna tutti i paesi sviluppati, e cancella i risultati di importanti conquiste per la civiltà e la vivibilità della condizione urbana e la tutela del territorio ottenute nell’ultimo mezzo secolo dalle forze sociali e politiche e dalla cultura italiana. Nella legge si sostituiscono gli “atti autoritativi”, e cioè la normale attività pubblica di pianificazione, con gli “atti negoziali con i soggetti interessati”. La relazione di accompagnamento della legge specifica che i soggetti interessati non si identificano – come sarebbe auspicabile - con la pluralità dei cittadini che hanno diritto ad avere una ambiente urbano vivibile e salubre, ma si identificano invece con la ristretta cerchia degli operatori economici. Un diritto collettivo viene dunque sostituito con la sommatoria di interessi particolari: prevalenti, quelli immobiliari. I luoghi della vita comune, le città e il territorio vengono affidati alle convenienze del mercato. Nella legge si sopprime l’obbligo di riservare determinate quantità di aree alle esigenze di verde, servizi collettivi (scuole, sanità, sport, cultura, ricreazione) e spazi di vita comuni per i cittadini, ottenuto decenni fa grazie a un impegno massiccio delle associazioni culturali, delle organizzazioni sindacali, del movimento associativo e di quello femminile, delle forze politiche attente alle esigenze della società. Gli “standard urbanistici” sono infatti sostituiti dalla raccomandazione di “garantire comunque un livello minimo” di attrezzature e servizi, “anche con il concorso di soggetti privati”. L’obbligo del rispetto quantitativo degli standard urbanistici è già rispettato nei comuni dove la corretta pianificazione urbanistica è un risultato consolidato, ma è un traguardo ancora molto lontano in numerosissime città italiane. Nella legge si esclude la tutela del paesaggio e dei beni culturali dagli impegni della pianificazione ordinaria delle città e del territorio. Contraddicendo una linea di pensiero che, da oltre mezzo secolo, aveva tentato di integrare con la pianificazione i diversi aspetti e interessi sul territorio in una visione pubblica unitaria, contraddicendo gli indirizzi culturali e legislativi che dalle leggi del 1939 e del 1942 avevano condotto alla “legge Galasso” e alle successive leggi regionali, paesaggio e trasformazioni territoriali sono divisi: affidati a leggi diverse, a uomini diversi, a strumenti diversi. Non c’è dubbio a chi spetterà la parola in caso di contrasti: non certo a chi rappresenta i musei e il bel Paese, ma a chi investe, occupa, trasforma, agli “energumeni del cemento armato”, pubblico e privato. Ci siamo limitati a sottolineare alcuni aspetti più negativi della legge, che ci sembrano sufficienti per esprimere un giudizio preoccupato e severo: preoccupato per gli effetti, severo nei confronti non solo di chi l’ha proposta, ma anche di chi non l’ha contrastata. E’ grave il silenzio della stampa. E’ grave l’atteggiamento minimalista dei gruppi parlamentari dell’opposizione che, nel migliore dei casi, si sono limitati a un’azione di piccoli emendamenti e di espressione di parziale dissenso a una linea radicalmente eversiva. E’ grave il silenzio dei partiti politici, che si presentano di nuovo alle elezioni senza aver espresso con chiarezza il loro orientamento (anzi, le loro decisioni) su un argomento così rilevante per il futuro del paese, per le condizioni di vita dei suoi abitanti, per la sorte stessa della democrazia. Roma, 28 gennaio 2005 I primi firmatari: Desideria Pasolini dell’Onda, Edoardo Salzano, Vezio De Lucia, Piero Bevilacqua, Vittorio Emiliani, Gaia Pallottino, Giuseppe Barbera, Giuseppe Gisotti, Alberto Magnaghi, Francesco Canestrini, Antonio di Gennaro, Raffaele Mazzanti, Mario Ghio, Gabriella Corona, Vittoria Calzolari, Domenico Luciani, …"

 
 

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